Intervista a Costantino Esposito, Presidente del Comitato Scientifico di Romanae Disputationes, prof. di Storia della Filosofia presso l’Università di Bari.
Quest’anno Romanae Disputationes ha riflettuto su “Logos e techne. Filosofia e tecnologia”. Quali sono le riflessioni più interessanti che ha ritrovato nei ragazzi di fronte al vasto e attuale tema della tecnologia?
In quanto presidente del comitato scientifico ho avuto modo di visionare gli elaborati dei ragazzi e ho notato l’emergere di due sentimenti, come due facce di una stessa medaglia: lo stupore e l’interrogativo che può rasentare lo sgomento.
I nostri ragazzi sono pieni di stupore e ammirazione di fronte alle – per così dire – illimitate possibilità della tecnica. Sembra che oggi attraverso la tecnologia si sia in grado di abbattere qualsiasi muro. Di fronte alle infinite potenzialità vi è una sorta di permanente curiosità per quello che potrà essere un fenomeno di cui siamo i fruitori e spesso gli “oggetti”. Al contempo si avverte una sorta di sgomento suscitato dalla consapevolezza del rischio che la tecnologia rappresenta: quello di uno svanimento dell’io, e cioè il pericolo che il soggetto si esaurisca paradossalmente scambiando la sua realtà individuale e irriducibile con le sue possibilità manipolative.
I ragazzi convivono tutti i giorni con la tecnologia, ne sono attori e agenti. Anche a partire dal suo rapporto quotidiano con loro, come vede cambiato il modo di discutere, di ragionare e di argomentare dei ragazzi a contatto con il mondo della tecnologia?
Sostanzialmente mi sembra che di fronte all’invasione dei social media e di tutta la comunicazione multimediale vi siano stati due movimenti contemporanei: da un lato si è andati verso l’essenziale. Avere ad esempio pochi caratteri a disposizione per esprimere qualcosa significa che non si perde tempo e si comunica subito ciò che di importante si ha da dire. Dall’altra parte il rischio è quello di un impoverimento non solo del linguaggio, ma anche dei contenuti e dello spessore dei dialoghi. Spesso si riduce tutto a sensazionalismi comunicativi più che al reale contenuto di ciò che viene comunicato.
Anche negli elaborati dei ragazzi emerge, accanto e più che una questione etica sull’uso corretto o scorretto della tecnologia, una questione più radicale riguardante la conoscenza che attraverso la tecnica possiamo raggiungere del significato delle cose e del senso del mondo. La domanda che più prepotentemente è emersa è proprio quella su chi sia il soggetto che parla e agisce attraverso la tecnica. Questo è ciò su cui dobbiamo riflettere.
Il rapporto tra tecnologia e filosofia è discusso sin dall’antichità, ha poi avuto una nuova fase assistendo agli sviluppi del mondo moderno e oggi si trova di fronte a nuove sfide. Quali strade pensa siano oggi da percorrere?
Nel rispondere a questa domanda mi viene in mento quello che ha detto Heidegger, un autore che ha dato un contributo rilevante nel pensare la tecnica: egli osservava che quest’ultima non è stata solo una conseguenza applicativa della scienza, ma un fenomeno che addirittura precede la scienza. La tecnica è la descrizione di un nostro modo di stare al mondo, che trasforma la natura in un “fondo” a nostra disposizione, da poter utilizzare per i nostri scopi. È l’affascinante, ma anche rischiosa disposizione della cultura filosofica occidentale a concepire il mondo come una nostra immagine, in base a una nostra rappresentazione.
Tale fenomeno per un certo verso è inevitabile (e sarebbe illusorio quanto inutile cercare di demonizzarlo): più che superarlo, questo rischio va abitato. E questo è possibile solo accettandone la sfida e non rifugiandoci in teorie fatalistiche secondo le quali la tecnica sarebbe un destino cieco o un dominio impersonale in cui noi siamo totalmente “giocati”; o spostando il valore della tecnologia sull’uso buono o cattivo che se ne può fare. Per quanto mi riguarda, penso ci si debba affidare di più alla competenza critica dell’uomo. Accettare la sfida di chiederci chi siamo non più come domanda retorica o puramente “umanistica”, ma come una domanda posta dalla stessa configurazione tecnica del mondo in cui viviamo. Paradossalmente in un mondo dove abbiamo così tante possibilità rischiamo anche di ridurci a molto poco. La tecnica aumenta così tanto la nostra potenza (o potenzialità), ma al tempo stesso può renderci addirittura superflui. Invece si torna a essere uomini quando si torna, sfidati dalla realtà, alla domanda che sempre ci accompagna: io chi sono?
Romanae Disputationes è un’iniziativa rivolta ai ragazzi. L’obbiettivo è quello di educarli attraverso il confronto e lo studio condiviso della filosofia. Quale pensa siano i valori a cui Romanae Disputationes vuole portare i suoi ragazzi e qual è il ruolo della filosofia oggi nell’educazione delle nuove generazioni?
Partirei da quest’ultima domanda, non da un’idea astratta ma dalla lunga pratica di rapporto quotidiano con i ragazzi a cui insegno e che incontro ogni anno, ma anche attraverso il Manuale di Filosofia che ho scritto con Pasquale Porro [edito da Laterza n.d.r.]. La grande questione educativa della filosofia è – detto in una parola essenziale – insegnare a domandare. Oggi si cresce con l’idea – certo non sbagliata – di doversi preparare a risolvere i problemi, il cosiddetto problem solving. La realtà tempesta le persone di problemi e noi dobbiamo rispondere a questi input con altrettante risposte all’altezza. Ma spesso si dimentica che molte volte noi non siamo in grado di risolvere i problemi semplicemente perché non li vediamo, e cioè perché non poniamo le domande giuste alle provocazioni a cui siamo esposti.
Romanae Disputatione ogni anno pone un tema e invita a riflettere. La peculiarità di questa iniziativa, rispetto ad altre simili, è che non ha la pretesa di incoronare il migliore, ma ha il desiderio di affrontare un problema facendo emergere, insieme, le domande più vere. La nostra missione più importante è educare una competenza interrogativa di fronte ai più urgenti aspetti della realtà.