Ehi guarda, c’è Dumbo!

Ieri sera ero a Prato, cittadina vicino a Firenze, a tenere una conferenza sulle espressioni dell’odio in rete. Come sempre in questi casi, ho iniziato la preparazione raccogliendo le mie idee riguardo all’argomento.

Ho pensato alle volte che mi hanno fatto dichiarazioni d’amore, talvolta impiegando parole molto semplici, altre volte indulgendo in voli pindarici; a quelle in cui le parole sono state usate come armi, per ferirmi, per farmi sentire in colpa, in breve per farmi male, magari sfruttando abilmente i miei punti deboli. Ho pensato allo scherno o a disprezzo travestito da ironia, o all’ironia mal concepita, e quindi foriera di fraintendimenti anche dolorosi, con cui sono stata presa di mira. Ho ricordato le situazioni in cui una parola sbagliata ha provocato un problema pratico, dall’incidente diplomatico al mancato svolgimento di qualche compito. Ho richiamato alla mente le infinite volte nelle quali io, da destinataria della comunicazione, a causa della mia distrazione o del mio poco interesse ho perso pezzi importanti di ciò che mi veniva detto, con tutte le conseguenze del caso.

Un vecchio episodio

In tutto questo elucubrare, mi è tornato alla mente un vecchio episodio. Ero alle medie, non avevo nessuna reale idea fisica di me stessa. Mi piacevo pure, oserei dire. Poi, un giorno che indossavo dei calzettoni a righe e una minigonna, per strada un gruppetto di ragazzi mi canzonò: “Ehi guarda, c’è Dumbo!“. Quella sera, guardandomi allo specchio, mi resi conto forse per la prima che ero un po’ rotondetta, come spesso succede alle ragazzine in crescita. Però lì, con quel cambiamento di autopercezione provocato da una frase di dileggio detta forse con leggerezza, iniziò una parte buia della mia adolescenza: negli anni successivi sarei passata da anoressia a bulimia e ritorno, fino al primo anno di università, in cui dovetti scegliere tra continuare a svenire per strada ma pesare 49 chili (e piacermi un sacco) o ritornare lentamente a un peso compatibile con l’attività fisica e cerebrale (peso con cui, per inciso, non ho mai fatto del tutto pace). Tutto scatenato da un episodio alla fin fine sciocco e di poco conto, nel quale, tanto per cambiare, le parole erano state usate con leggerezza.

Come insegna Italo Calvino

Quante volte usiamo le parole così, come vengono? Quanto spesso impieghiamo termini passepartout, generici, senza cercare quello migliore, che descriva in maniera più precisa il nostro pensiero, insomma senza prenderci la briga, come dice Calvino nelle Lezioni Americane, di cercare la “scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze“? Quanti di noi rabbrividiscono nel sentire le solite, consumate cristallizzazioni linguistiche dei mezzi di comunicazione di massa come “muro di gomma dell’omertà” o “strage del sabato sera” o “piccolo angelo” o “gente comune“? Quanto spesso ci infastidiamo per l’inglese usato a sproposito, magari pronunciato male (“noào” per know-how o “manàggement” per management, ecc.) e malediciamo, tra noi e noi, di essere in una splendida location per un pre-dinner drink con altri influencer del mondo digital?

Sono un caso patologico?

Forse io sono un caso patologico: tendo a scartare potenziali fidanzati che mi scrivono “pò” o “qual’è” in un messaggio su WhatsApp e vergo lettere di fuoco alle aziende quando trovo un errore ortografico o una virgola fuori posto sulla confezione di qualche prodotto. Ma al di là (e non aldilà, perbacco!) di una lieve vena ossessiva che ho io personalmente, penso che tutte le persone implicate in Parole O-Stili condividano una convinzione: che ci sia bisogno di una maggiore attenzione nei confronti dell’uso della lingua, tanto più in contesti mediati, dove non ci si vede in faccia e le possibilità di fraintendimenti sono ancora più numerose.
Eccoci, quindi: unendo le forze, forse possiamo fare qualcosa di utile per una comunicazione più chiara, più precisa, più comprensibile, più amichevole e meno ostile.

Chi sono io? Mi riconoscerete dalla penna rossa appuntata sul cappello.

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