È colpa di qualcun altro

Quando gli amici di Parole Ostili mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sulle mie, di parole ostili, mi è sembrato quasi troppo facile. Perché ognuno ha le sue idiosincrasie; nel mio caso, tante. Ci sono le parole inglesi montate su desinenze italiane (brieffare, skillato). Ci sono i gerghi burocratici, del marketing, delle aziende, che farebbero salire brividi sulla spina dorsale di Calvino (se oggi diciamo obliterare il biglietto, povero Italo, quanto hai parlato e scritto invano sull’antilingua).
Ma siccome una delle mie qualifiche è quella di giornalista, per me ci sono soprattutto le aberrazioni dei titoli, degli articoli. Ci sono i velivoli, le vetture, i “gialli”, le splendide cornici di mille servizi delle sedi Rai regionali. Fastidiosi, ma in fondo innocui. Ci sono le espressioni molto meno innocue: lo stupro del branco, l’odio del web, la montagna killer, la strada assassina. Molto meno innocue perché deresponsabilizzano. Se è il branco a stuprare, non siamo noi. Non sono io. Se è il web che odia, io che c’entro? Se è la strada a essere killer o la montagna assassina, non sono io che eccedo i limiti di velocità, guido ubriaco o affronto una scalata senza l’adeguata preparazione. Sono le forze della natura. È colpa di qualcun altro.
Tornare a dare alle parole il loro significato. Prendersi le giuste responsabilità. Evitare le frasi fatte, i cliché , la pigrizia, la sciatteria. Tornare a pensare e a scrivere di conseguenza. Sarebbe già un grande risultato

E poi, mentre pensavo a tutte queste cose per scriverle in un post, Francesca Del Rosso è morta. Francesca era una giornalista, scrittrice, mamma e moglie, scegliete l’ordine che preferite anche se io, in questo momento, pensando al dolore di chi resta, direi prima di tutto mamma e moglie. Francesca non era una mia amica, se diamo a questa parola il senso che le compete e non quello di Facebook; l’ho seguita soprattutto online, da lontano. L’ho incrociata un paio di volte, anni fa: presentazioni di libri, eventi. Abbiamo chiacchierato, ci siamo trovate in sintonia; restano una manciata di foto di quelle chiacchiere improvvisate che però – poi ci sentiamo, ci vediamo, un caffè – come spesso succede non hanno avuto seguito. E poi, altro caso, altra coincidenza mancata, lei ha iniziato a scrivere sul blog di Vanity proprio quando io ne stavo uscendo.
Francesca ha affrontato molte battaglie, lo saprete se avete letto il suo libro Wondy, ovvero come si diventa supereroi per guarire dal cancro.
Una delle ultime riguardava il linguaggio. Ho il cancro, diceva lei; non ho “un brutto male”. Chiamiamo le cose con il loro nome, ammoniva, e per portare avanti questa sua (ennesima) battaglia ha lanciato anche un hashtag: #cancrononparole. E ha sottolineato e criticato, ogni volta che lo trovava su un giornale o una rivista, l’uso improprio delle parole cancro e metastasi per definire, in cronaca, una situazione drammatica, impossibile da recuperare: il cancro della corruzione. La droga è una metastasi. Pensate a chi è ammalato, diceva. Già deve combattere la sua guerra quotidiana; vogliamo anche aggiungere il peso linguistico della sua malattia usata come sinonimo di tutti i mali sociali?
Francesca sarebbe stata una speaker perfetta a Parole Ostili. Ora il minimo che possiamo fare per lei, in un contesto in cui le parole sono davvero importanti, è ricordarla portando avanti la sua battaglia.

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