Donne e offese in rete: il diritto-dovere di denunciare i violenti

di Silvia Morosi, Martina Pennisi, Luisa Pronzato
La 27Ora – Corriere della Sera

Combattiamo la violenza in rete come facciamo, tutti i giorni, con quella che incontriamo nella vita reale. Da Tiziana Cantone a Carolina Picchio, fino alla giovane violentata (e filmata dalle amiche) in discoteca. Di scatti rubati, momenti intimi che diventano pubblici, vite messe in vetrina e alla gogna mediatica oggi si muore. Tutto intorno restano vittime di “ferite più lievi” che derivano da critiche, giudizi, insulti sottotraccia che vanno ad alimentare la zona grigia delle “offese fatte con ironia” che dal mondo offline si sono trovate a viaggiare e scivolare sui social con una velocità che non ha termini di paragone.

“Parole Ostili”, parole che violentano, parole che cancellano, parole che bloccano, parole che stigmatizzano. Lo schermo deresponsabilizza, disinibisce e induce a pensare che chi condivide e alimenta la diffusione di alcuni contenuti violenti sia meno colpevole di chi li pubblica per primo. O peggio, che il diritto ad avere una vita virtuale non abbia le stesse limitazioni di quelle esistenti nella società.

Come donne, cittadine, giornaliste, sappiamo bene che la lingua che parliamo, che scegliamo di parlare, è il primo ingrediente delle azioni che metteremo in atto. E che la violenza è violenza e prescinde dal comportamento della vittima o da come sia ritratta in una fotografia: anche se si tratta di immagini osè, la violenza dei commenti che viaggiano sul web non è giustificabile. Le regole su internet non possono passare per censura: se va garantita la libertà di espressione, va anche tutelato il diritto di non essere diffamati, perseguitati e insultati nei propri spazi online. Crediamo in una “educazione nel web” che sa trovare un equilibrio tra tutela della libertà di espressione e salvaguardia dei diritti. La rete strumento di interazione, emancipazione, lavoro e arricchimento culturale non può diventare un mezzo per diffondere stereotipi, meccanismi discriminatori e intolleranza. Compito del Parlamento è l’approvazione al più presto di norme rigide contro ogni forma di violenza diffusa sull’autostrada dell’informazione, con pene severe e certe per gli aguzzini e gli sciacalli del web. Una normativa in merito deve essere anche l’occasione per promuovere una corretta alfabetizzazione digitale: la prima arma di difesa, infatti, risiede nella conoscenza del mezzo. I titolari dei social network devono essere i primi ad attuare politiche di contrasto e interventi concreti contro questi fenomeni, in continuo aumento.

Come difendersi? Anche se si avrebbe voglia di cancellare subito i messaggi offensivi o minacciosi, è bene documentare tutto, attraverso screenshot e copiando i link. Le prove sono determinanti in fase di denuncia. Successivamente va chiesto che i contenuti vengano rimossi dalla piattaforma social e dai motori di ricerca. L’importante è denunciare, denunciare tutto. Perché chi deve aver paura di stare in rete sono i violenti, non gli altri. Un esempio? Arianna Drago ha criticato i gruppi chiusi nei quali venivano postate senza permesso foto di ragazze accompagnate da commenti sessisti, sottolineando come ormai sia diventato “troppo alto il prezzo da pagare per chi sta in rete”. Prima censurata da Facebook, ora la sua battaglia ha portato alla cancellazione di alcuni profili e la discussione sul cosiddetto “stupro virtuale”, di nuovo, al centro del dibattito. La prima arma contro la violenza in rete, che si nutre di gruppi privati e invisibilità, è proprio quella della denuncia.

Parole violente vengono scagliate con accanimento soprattutto contro le donne in nome della provocazione o dell’ironia. Le più colpite, come riporta una inchiesta del Guardian, sono proprio giornaliste e politiche. Personaggi che secondo l’immaginario di chi utilizza un linguaggio violento hanno “potere” ma allo stesso tempo “appartengono al sesso debole”. Quello che dicono e fanno gli haters non deve essere ingentilito per non offendere la sensibilità delle persone.

Edulcorare loro o le loro parole è una forma di tolleranza sistematizzata che gli consente di fare quello che fanno, per mettere a tacere le donne online.

Come spiega Martha Nussbaum nel suo libro “Sex and Social Justice” (Sesso e giustizia sociale) “denunciare, spiegare quello che succede è meglio dell’intimidazione silenziosa e il diritto di denunciare non rende le donne delle vittime patetiche, proprio come il diritto di denunciare il furto di un portafoglio non rende gli uomini vittime patetiche”. Dobbiamo spostare l’onere dalle vittime ai responsabili della violenza. Le molestie online sono soltanto una versione tecnologica di idee vecchie secondo cui le donne possono essere trattate come un oggetto.

Come Corriere della Sera vogliamo dare spazio, in una sezione apposita, alle storie di denuncia delle violenze in rete e offrire un luogo dove trovare il coraggio per combattere questi fenomeni. Portatrici, per prime, di un linguaggio che non utilizza “Parole Ostili”.

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