Alcune delle parole che hai letto sono termini che sono stati creati proprio per descrivere odio e disprezzo nei confronti delle donne e fanno parte di una sorta di codice linguistico adottato generalmente da uomini under 30 online.
Il fenomeno del vocabolario utilizzato dagli
incel italiani (acronimo di involuntary celibates, cioè "celibi involontari") sembra
a tutti gli effetti una sottocultura online caratterizzata da un linguaggio codificato, spesso misogino, che riflette una visione distorta delle relazioni di genere. Termini come quelli citati prima sono esempi di questo gergo, che serve a rafforzare l'identità del gruppo, a denigrare il genere femminile e giustificare il risentimento sociale.
Proviamo a capire il significato di queste tre parole.
Ipergamare
Deriva da "ipergamia", un concetto sociologico che indica la tendenza a cercare un partner di status sociale superiore. Oggi è usato in modo dispregiativo per indicare il comportamento femminile percepito come opportunistico, in base al quale le donne rifiuterebbero uomini considerati "inferiori". Il termine sottolinea il risentimento verso l’autonomia femminile nelle scelte relazionali, interpretata come una minaccia alla mascolinità tradizionale.
Cumcettina
È una deformazione dispregiativa del nome "Concetta" o "Concettina" con l’aggiunta del prefisso "cum" ( "sperma" in inglese), che aggiunge un alto livello di volgarità. Indica una donna percepita come banale o insignificante, ma che aspira a relazioni con uomini più attraenti o di status superiore.
Cuccolandia
Viene utilizzato per descrivere in modo sarcastico un mondo idealizzato in cui le donne vivrebbero in uno stato di privilegio emotivo e sociale. Rappresenta una critica al presunto favoritismo sociale verso le donne, viste come creature protette e coccolate dalla società, a scapito degli uomini. Un termine che riflette l’elevato grado di vittimismo della sottocultura incel.
Inutile dire che non “sono solo parole”, perché rappresentano un mezzo per considerare una visione tossica delle relazioni di genere. Non possiamo più rimandare la costruzione di un dialogo tra generi non polarizzato e sincero, dove responsabilità e impegno siano gli elementi sui quali costruire una nuova cultura delle relazioni.
Se ti è capitato di vedere la serie tv “Adolescence” sicuramente non hai potuto fare a meno di fare dei collegamenti, mentre se ancora non l’hai vista ti consigliamo di recuperare. Ne varrebbe la pena per due motivi, uno contrapposto all’altro:
“«Pensavamo che in quella cameretta fosse al sicuro», dice il padre del ragazzino di Adolescence, e in effetti lo speriamo sempre anche noi, quando la porta della camera dei nostri figli è sprangata e loro sepolti in cuffie giganti e calati in piccoli schermi. Ma in realtà sappiamo benissimo che loro non sono semplicemente lì. E che quindi non possono essere al sicuro.” scrive Arianna Giorgia Bonazzi su Rivista Studio.
“La volontà della serie è spiegare la realtà e confermare le paure degli adulti più apprensivi: una realtà cattiva, nuova, in cui i genitori sono ignari di ciò che succede ai figli quando sono in camera loro, così vicini eppure immersi negli schermi; un mondo in cui la scuola non ha strumenti per contrastarli, questi schermi, a causa dei quali i ragazzini sono privi di qualunque sensibilità (o intelligenza).” commenta Irene Preziosi su Lucy.
L’ospite di questa settimana con la quale abbiamo approfondito il tema dell’odio di genere ma, soprattutto, di come questo viene raccontato e delle responsabilità che i media hanno nell’alimentare una cultura che sottovaluta e quasi assolve la violenza, è
Maria Cafagna, autrice e scrittrice ogni giorno online su Spotify
con il podcast “Autonoma” (che vi consigliamo di ascoltare perché questa settimana è interamente dedicato proprio alla violenza di genere).
Qual è l’errore più grande dei media nel raccontare episodi di femminicidio? Esiste una forma sottile di vittimizzazione secondaria che, voglio sperare, non sia intenzionale. Ovvero quella di puntare l’attenzione sui comportamenti della vittima. Inoltre, il problema viene quasi sempre descritto come una questione privata: si punta il dito sulla vittima o su chi le stava vicino: “doveva denunciare prima”, “non doveva mettersi con lui”, “bisogna cogliere i segnali”. Questo paternalismo distoglie l’attenzione dal vero nodo: il sistema patriarcale in cui il sessismo è strutturale e profondo. Mi scuso anticipatamente per la semplificazione, il discorso è più articolato ma provo a sintetizzare: l'attuale sistema in cui viviamo sfrutta il lavoro di cura femminile, sottopaga le donne, aumenta il part-time involontario, per cui mettere in discussione tutto questo non è conveniente né per i media mainstream, né per certa politica. Più facile è continuare a dare spazio ai dettagli morbosi, che ci tengano incollati agli schermi.
Internet e i social hanno contribuito a rafforzare la “manosfera”. Ad oggi, l’attivismo sta utilizzando bene le opportunità offerte dalla rete per fare divulgazione anche su questi temi? Assolutamente sì! Molte di queste persone lo fanno con competenza e passione, spesso nel silenzio generale, offrendo narrazioni alternative, consapevoli, rispettose. I risultati però si vedono: se in tanti sono scesi in piazza negli ultimi giorni, è anche grazie al loro lavoro. È vero anche che, di fronte a questo attivismo positivo, è nata online una reazione di segno opposto, la cosiddetta “manosfera”, ovvero spazi radicalizzati, pieni di odio e risentimento. E mentre questo accadeva, i media guardavano altrove, puntando il dito contro la “cultura woke” o il “politicamente corretto”. Le conseguenze – anche politiche – sono oggi sotto gli occhi di tutti. Da qualche giorno, anche dei mercati.
C'è qualcuno – persone, giornali, programmi – che secondo te sta già comunicando in modo davvero rispettoso, inclusivo e capace di fare la differenza? Sì, esistono delle isole felici, e vanno valorizzate. Penso a Geppi Cucciari, che con il suo programma affronta temi sociali in modo intelligente e accessibile. Penso ad Antonella Clerici, che dedica spazio in una fascia oraria popolare a diritti civili e questioni sociali, parlando a un pubblico spesso trascurato: donne anziane e poco scolarizzate. Tra le voci online, segnalo il lavoro prezioso di Carolina Capria, e della psicologa Ameya Canovi, spesso ospite proprio da Geppi e la newsletter femministra “The Period”. Ma c’è ancora molto da fare, soprattutto nei media tradizionali, dove le figure decisionali e i conduttori sono in gran parte uomini. È un’anomalia “molto italiana” come direbbe Stanis La Rochelle, che non dovremmo prendere sottogamba. Pronto, sono Maria De Filippi!
“Venerdì sera. Suona il telefono. Chiamano dalla redazione di Amici di Maria De Filippi. Faresti una formazione ai ragazzi del serale tra un’oretta? Ti passo Maria (sì quella Maria 😉).”
Questo è
l’incipit del post che la nostra Presidente Rosy Russo ha pubblicato sul suo profilo Linkedin e che racconta un episodio “
bizzarro” che ci è capitato la settimana scorsa:
una telefonata arrivata proprio da Maria De Filippi in persona, per chiedere a Parole O_Stili di parlare di linguaggio e comunicazione consapevole ai ragazzi della scuola di
Amici.
Beh, l’abbiamo fatta e speriamo di aver lasciato a questi ragazzi e a queste ragazze un piccolo seme di forza che li aiuterà a superare e a digerire la violenza degli insulti che ricevono online.